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I bambini imparano a comunicare e a relazionarsi principalmente in tre modi:

  1. Guardando come i genitori si relazionano con lui;
  2. Osservando come i genitori si relazionano con gli altri;
  3. Apprendendo dalla loro personale e passata relazione con gli altri.



A volte, il modo in cui i genitori si comportano, specialmente durante una punizione, ostacola la sana comunicazione con proprio figlio perché scoraggia la fiducia e l’estroversione del bambino. Urlare e alzare la voce può impaurire il bambino, che potrebbe non correre più il rischio di raccontarsi apertamente. Se urlare è il modello di comunicazione utilizzato, il genitore potrebbe perdere la preziosa fiducia del figlio.

comunicazione bambiniI dissapori fanno parte della vita ma a volte possono anche creare situazioni in cui gli adulti agiscono in modi che scoraggiano la comunicazione. Lo psicologo e autore Martin Seligman sottolinea alcuni comportamenti che possono compromettere una positiva comunicazione:

  • non usare aggressioni fisiche di fronte a tuo figlio. Questo include lanciare oggetti o sbattere le porte. Queste azioni fanno davvero paura a tuo figlio.
  • esprimi più che puoi i tuoi sentimenti a parole. Usa l’assertività più che l’aggressione. Dì “sono davvero arrabbiata/o ora”.



  • trasmetti il controllo della rabbia a tuo figlio. Fai le cose con calma e prenditi tutto il tempo necessario per ritornare calma/o. Dì, “sto andando nel retro del cortile per darmi una calmata un po’ prima di ridiscuterne”.
  • non criticare il tuo partner di fronte a vostro figlio con etichette offensive e permanenti (“tuo padre è sempre…”, “tua madre non è mai…”)
  • se devi criticare il tuo partner in un luogo in cui il bambino potrebbe sentirvi, usa un linguaggio che rimproveri un comportamento specifico piuttosto che la sua intera personalità.
  • non trattare il tuo partner con il silenzio e pensare che tuo figlio non lo noterà.
  • non chiedere a tuo figlio di scegliere da che parte stare tra i due genitori.
  • non iniziare una discussione con il tuo partner o un tuo amico di fronte a tuo figlio, a meno che non progetti di finirla nella stessa conversazione.
  • risolvi i conflitti e fai pace quando tuo figlio può osservare ciò. Questo gli dimostrerà che il conflitto è parte naturale dell’amore e di ogni relazione e che i conflitti possono essere risolti. Se non vede come si risolvono le discussioni, non saprà mai come farlo.
  • lascia tuo figlio all’oscuro di certi argomenti. Fai un accordo con il tuo partner per evitare alcuni temi quando i figli sono presenti, e, se dovete discutere, cercate un posto privato dove i bambini non possano vedervi o sentirvi.

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Debbie Phelps lavora come preside di una scuola media a Baltimora (USA) ed è la madre del campione olimpionico di nuoto Michael Phelps.

 

Dedicare la propria vita al nuoto è stata, per Michael Phelps, senza dubbio una scelta azzeccata. Nel 2004, all’età di 18 anni, ha ottenuto 8 medaglie (di cui sei d’oro) alle Olimpiadi estive di Atene. Adesso, a 30 anni, di medaglie ne ha conquistate ben 77. L’amore per il nuoto non è sempre stato presente nella sua vita. “Quando aveva 7 anni, odiava bagnarsi la faccia”, dice Debbie. “Così abbiamo iniziato stando con la pancia verso l’alto e gli abbiamo insegnato il dorso”. Michael mostrava dei progressi davvero notevoli nel nuoto. Ma a scuola, la situazione era molto difficile! la difficoltà di concentrazione era il suo problema più grande. “Una delle sue insegnanti mi disse che non riusciva a concentrarsi in nessun compito”, racconta Debbie. Lei decise allora di sottoporlo ad una visita specialistica e gli venne diagnosticato l’ADHD (Deficit di Attenzione con Iperattività). “Quello fu un colpo al cuore!”, ricorda Debbie. “ Io volevo dimostrare a tutti che si sbagliavano. Io sapevo che, se avessi lavorato con Micheal, lui avrebbe potuto raggiungere tutti gli obiettivi che si fosse prefissato.” Debbie, che aveva gestito la scuola media per più di 20 anni, iniziò a lavorare a stretto contatto con le insegnanti di Micheal per potenziare l’attenzione di cui lui era carente. “Ogni volta che un’insegnante mi diceva: Michael non riesce a fare questo, io rispondevo: Bene, che cosa dobbiamo fare per aiutarlo?”. Quando Michael iniziò michael phelps mamma adhdad infastidire il compagno di banco, strappandogli dei fogli dal quaderno, Debbie suggerì di farlo sedere in un banco da solo. Quando si lamentava dicendo quanto odiasse leggere, lei gli proponeva di leggere la sezione sportiva del giornale. Avendo notato che l’attenzione di Michael diminuiva molto durante le lezioni di matematica, lei trovò un tutor e gli chiese di creare dei problemi che suscitassero l’interesse di Michael: “Quanto tempo impieghi a nuotare per 500 metri se nuoti ad una velocità di 3 metri al secondo?”. Durante le lezioni di nuoto, Debbie aiutava il figlio Michael a rimanere concentrato ricordandogli quali erano le conseguenze del suo comportamento. Debbie ricorda quando, a 10 anni, Michael arrivò secondo ad una gara ed era così arrabbiato che gettò i suoi occhiali in piscina. Durante il viaggio di ritorno, lei gli spiegò che l’amore per lo sport conta molto di più di una vittoria. “Abbiamo concordato un segnale che io gli avrei fatto dagli spalti.”- dice Debbie- Una specie di C, che voleva dire ‘riComponiti’. Ogni volta che lo vedevo frustrato, io gli facevo quel segnale. Una volta, mentre stavamo cenando, fu lui a farmi questo segnale perché vide stressata.”

Debbie usò molte strategie per aiutare Michael. Con il tempo, come la passione di Michael per il nuoto crebbe, lei fu orgogliosa di vedere come Michael stesse sviluppando un’importante autodisciplina. “Negli ultimi 10 anni, non è mai mancato un giorno in piscina, neanche a Natale. La piscina è il primo posto dove andiamo e lui è felice di essere lì.” Debbie ha cercato anche di ascoltare le richieste di suo figlio. In prima media, Michael le disse che non avrebbe più voluto prendere i farmaci per l’attenzione. Nonostante avesse grossi dubbi, Debbie gli permise di interrompere l’assunzione dei farmaci. La settimana di Michael, densa di allenamenti e lezioni, richiedeva molta organizzazione, che lui riuscì ad avere anche senza l’aiuto dei farmaci per l’attenzione. Madre e figlio non si vedevano sempre prima di ogni incontro, ma lui ha sempre capito quanto sia stato cruciale il ruolo di sua madre per il suo successo. Immediatamente dopo aver ottenuto la medaglia d’oro ad Atene, Michael saltò giù dal podio, poi corse fino agli spalti per dare a sua madre il bouquet e la corona dall’alloro che aveva in testa. Questo momento è molto vivido nei ricordi di Debbie, “Ero così felice. Ho pianto”.

Oggi, Michael Phelps è ritenuto uno dei più grandi nuotatori di tutti i tempi. Sua madre Debbie, che lavora come preside a Baltimora (USA), applica ciò che ha imparato crescendo suo figlio ai suoi studenti, indipendentemente dal fatto che abbiano l’ADHD o meno. “Tutti i bambini possono fallire a volte”- dice Debbie- “Ma se lavori con loro, nove volte su dieci, ti renderanno orgogliosa”.

 

Testo dell’intervista in inglese su: http://www.additudemag.com/adhd/article/1998.html

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E’ da tempo noto che i bambini sono incredibilmente in grado di riconoscere facce in movimento già nelle prime ore dalla nascita, e che diventano abili a distinguere il viso della madre di lì a pochi giorni. Tuttavia la capacità di riconoscere i volti allo stesso livello degli adulti non viene acquisita prima dell’adolescenza.

Quello che è meno noto è quali siano le differenze qualitative che riguardano il modo con cui i bambini e gli adulti identificano i volti: secondo alcuni studiosi i bambini analizzano prima le singole parti, per poi ricondurle ad un volto unitario. Secondo altri la strategia utilizzata da bambini e adulti è la stessa, ovvero entrambi codificherebbero il volto in modo olistico, come un tutto unitario.

riconoscimento voltiIn una ricerca di Pellicano e Rhodes (2003) si è voluto scoprire se bambini al di sotto di sei anni riescano ad elaborare e riconoscere i volti in modo olistico. Se i bambini e gli adulti riconoscono in modo olistico i volti presentati verticalmente, come sostenuto nelle ipotesi dei due ricercatori, allora una certa caratteristica del volto dovrebbe essere più facilmente riconosciuta quando questa è presentata all’interno del viso, piuttosto che se presentata singolarmente e isolatamente da questo. I volti raffigurati rovesciati, più difficili da identificare, verrebbero invece elaborati per parti.

I ricercatori erano concordi nel ritenere che i bambini piccoli mostrassero minore accuratezza nella codifica rispetto agli adulti, tuttavia pensavano che i processi alla base dovevano essere gli stessi.

Per verificarlo vennero sottoposte, a partecipanti adulti e bambini di 4 e 5 anni, otto figure rappresentanti volti non familiari, quattro di queste vennero presentate dritte e le altre quattro ribaltate.

Gli stimoli presentati in successione erano:

  • un volto

  • lo stesso volto accanto ad un volto-distrattore identico al primo tranne per una caratteristica (il naso, la bocca..) alterata

  • la caratteristica del volto non alterata e quella alterata presentate isolatamente dal viso.

Negli stimoli rovesciati la successione di presentazione era la stessa.

Quello che si voleva sondare era l’accuratezza nel riconoscere i visi mostrati e le loro parti isolate.

Dai risultati si evince che l’identificazione delle parti di un volto avveniva più facilmente e più accuratamente se esse erano presentate all’interno dello stesso volto piuttosto che presentate singolarmente, ciò a dimostrare quanto, sia adulti che bambini, percepiscano i volti in modo non frazionato bensì unitario.

Tuttavia, l’accuratezza nel rispondere è significativamente migliore negli adulti. Entrambe le categorie di partecipanti, inoltre, mostrava difficoltà nel riconoscere un volto quando era invertito.

Le spiegazioni concernenti le differenze tra piccoli e grandi sono varie e ancora non verificate, alcuni parlano di maggior esperienza che gli adulti hanno con i volti umani rispetto ai bambini, altri di modificazioni che avvengono nel magazzino mnestico con lo sviluppo.

In ogni caso ci sono altre ricerche le quali dicono che la capacità di codificare il viso in modo unitario avvenga molto presto, già ad un anno di età. Sembra dunque che questa capacità di vedere e identificare i volti come un tutto unitario e al di là delle singole parti, come una sorta di “Gestalt“, sia qualcosa di innato che si raffina con la crescita: possiamo parlare di un vero e proprio imprinting, che noi tutti possediamo, per i volti umani!

Bibliografia

Pellicano E., Rhodes G., Holistic Processing of Faces in Preschool Children and Adults, Psychological Science, 2003, 618-622

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Nella vita di tutti i giorni abbiamo a che fare con le emozioni, i pensieri, le credenze di coloro che circondano: la capacità di “mettersi nei panni degli altri” è utile per capire il perché le persone agiscano in un certo modo. Ma a che età iniziamo ad acquisire questa abilità? Molti studi testimoniano che già dopo pochi mesi dalla nascita iniziamo ad essere in grado sia di comprendere gli scopi delle azioni altrui, sia di riconoscere se un’azione sia dannosa oppure no. Come arrivano a queste conclusioni i bambini? Sono in grado davvero di impersonarsi e ragionare come l’altro o interpretano il comportamento secondo il loro punto di vista?

i bambini comprendono le intenzioni degli altri Per andare più a fondo nel problema tre ricercatori della Yale University hanno cercato di indagare il tipo di valutazione che fanno i piccoli tra i 5 e 12 mesi d’età nell’osservare il comportamento orientato ad una meta, in due situazioni, una precedente e una successiva.

SITUAZIONE 1: comprendeva la visione di due filmati:

  • nel primo una palla saliva la prima collina e poi era aiutata da un triangolo a raggiungere la vetta della seconda collina (aiuto)
  • nel secondo la stessa palla saliva la prima collina ma poi era ostacolata da un quadrato nella sua ascesa nella seconda collina, e cadeva al punto iniziale (ostacolo)

SITUAZIONE 2: venivano fatti vedere altri due filmati con gli stessi oggetti presentati precedentemente: la palla, il triangolo e il quadrato.

  • nel primo video la palla si avvicinava al triangolo
  • nell’altro la stessa si avvicinava al quadrato

I risultati documentano come i piccoli di 12 mesi mostravano una tendenza forte a preferire il video in cui la palla si avvicinava a chi le era stato d’aiuto (triangolo), rispetto a quello in cui la palla andava verso il quadrato, che nella prima situazione l’aveva ostacolata. Il ragionamento di base che i bambini operarono fu probabilmente questo: se fossi nella palla preferirei avvicinarmi a chi prima mi ha aiutato e vorrei allontanarmi da chi mi ha bloccato la strada.

Sebbene siano state date varie interpretazioni a questo fenomeno, gli autori di questo studio sono pervenuti tuttavia alla conclusione che già ad un anno di età siamo in grado di capire i motivi per cui le persone si comportano in un certo modo, ragionando come se ad agire fossimo noi in prima persona.

 

Bibliografia

Kuhlmeier V., Wynn K., Bloom P. (2003) Attribution of Dispositional States By 12-months-olds, Psychological Science, 402-407

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Sally depone una barra di cioccolato nella scatola e esce dalla stanza. Ann entra nella stanza e sposta il cioccolato di Sally nel cesto. Poi Sally rientra. Dove andrà a cercare il suo cioccolato?

sally ann test teorie della menteI bambini piccoli avranno molta difficoltà a rispondere al quesito, e nel farlo si baseranno sulle loro conoscenze, piuttosto che su quelle di Sally. Dunque risponderanno che Sally molto probabilmente andrà alla ricerca della barretta nel cesto. Questo è un esempio della difficoltà che i bambini nel capire cosa possono pensare gli altri.

In ambito scientifico c’è un ampio dibattito sulla natura di tale incapacità. Alcuni studiosi suggeriscono sia una differenza di tipo qualitativo, che si acquisisce solo con lo sviluppo. Altri ipotizzano che questa si dovuta a una generale limitatezza delle abilità di memoria e di logica presenti nell’infanzia, piuttosto che ad una difficoltà di comprensione degli eventi che accadono.

 

Birch e Bloom (2003) affermano invece che questo errore sia dovuto a diversi fattori e sia presente anche negli adulti con il nome di curse of knowledge: quante volte di fronte alla nostra conoscenza della soluzione di un problema abbiamo sovrastimato la sua facilità nel risolverlo?

Questi ricercatori sostengono che questa difficoltà si presenti soprattutto nei bambini molto piccoli, che si manifesti anche in compiti che non coinvolgono direttamente il bias della falsa credenza, e che l’aiutarli a superare con successo la prova avrà enormi effetti su di loro.

Per provare ciò, a bambini dai 3 ai 5 anni vennero mostrati due giocattoli, uno, che si diceva, amico del pupazzo Percy, e un altro sconosciuto a Percy. Inoltre veniva detto loro che entrambi i giocattoli avevano un oggetto al suo interno, ma solo a metà dei partecipanti fu mostrato qual era l’oggetto effettivamente contenuto. La domanda che gli sperimentatori rivolsero loro fu: Percy sa che oggetto è contenuto nei due giocattoli? Il pupazzo Percy non poteva sapere quale fosse il contenuto del giocattolo a lui sconosciuto ma solo di quello del giocattolo a lui familiare. Tuttavia i bambini, a causa dell’errore avrebbero (secondo l’ipotesi) esteso la loro conoscenza anche al giocattolo sconosciuto a Percy, non immedesimandosi perciò in lui. Questo sarebbe successo quando essi avessero avuto la possibilità di vedere effettivamente gli oggetti che i due giocattoli contenevano.

I risultati confermarono l’ipotesi. I bambini di 3 anni tendevano ad attribuire a Percy la conoscenza dell’oggetto nel giocattolo sconosciuto solo quando essi avevano avuto la possibilità di vederlo e non quando ne erano all’oscuro pure loro. Quindi tendevano a sbagliare solo quando indotti a farlo a causa del loro bias. Nei bambini di cinque anni tale fenomeno non si presentava più.

Questo effetto sembra essere in accordo con la teoria di Piaget, la quale afferma che i bambini hanno difficoltà nell’assumere prospettive diverse dalla loro. In realtà l’errore non deriva dall’egocentrismo infantile: i bambini testati non avevano difficoltà ad assumere qualsiasi prospettiva, ma semplicemente quella di colui che ne sapeva di meno.

Insomma, la ricerca dimostra come i bambini piccoli sono particolarmente suscettibili al curse-of-knowledge bias identificato anche negli adulti e questo li porta a produrre degli errori nell’attribuzione degli stati mentali.

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Bibliografia

Children are Cursed: An Asymmetric Bias in Mental-State Attribution, Psychological Science, 2003, 283-285



Quante volte, nella nostra vita, abbiamo sentito un bambino nominare oggetti diversi nello stesso modo, solo perché simili tra loro?

Quando i bambini imparano il nome di un nuovo oggetto tendono a estenderlo ad altri manufatti che condividono la stessa forma, un normale errore chiamato “shape bias”.

sviluppo del linguaggio shape biasPer spiegare ciò sono state avanzate due ipotesi: la prima sostiene che i bambini piccoli si focalizzano solo sulla forma e non sulla funzione; secondo l’altra ipotesi i bambini piccoli pensano che oggetti di forma simile abbiano la stessa funzione.

Per testare questa seconda ipotesi, in uno studio venivano presentati a bambini di 3 anni triplette di oggetti: un primo oggetto-target a cui veniva data un’etichetta, un secondo della stessa forma (che serviva da contenitore dell’oggetto-target) e un terzo dello stesso materiale. Successivamente, veniva mostrato che il secondo oggetto, anche se aveva la stessa forma dell’oggetto-target, serviva da contenitore.

In questo caso pochi bambini tendevano ad estendere l’etichetta dell’oggetto-target al contenitore. Mostrare il perché due oggetti condividono la stessa forma fa diminuire la tendenza a generalizzare il nome sulla base della loro similarità percettiva.

In un secondo studio vennero mostrati a bambini con la stessa età tre tipi di stimoli: l’oggetto-target,sviluppo del linguaggio shape bias un oggetto con la stessa funzione e un terzo oggetto con la stessa forma (ma diversa funzione). Solo nel caso in cui lo sperimentatore dimostrava ai bambini la funzione sia dell’oggetto- target, sia dell’oggetto con la stessa funzione si ebbe un significativo decremento dello shape bias. Lo stesso effetto non si notò descrivendo solamente la funzione del target.

Riassumendo, i bambini tendono a chiamare con lo stesso nome oggetti di forma simile. Nel caso in cui conoscano la funzione di entrambi gli oggetti, non cadono nell’errore detto “shape bias”.

Questi studi dimostrano quanto i bambini si basino sulle loro intuizioni riguardanti le funzioni degli oggetti, in mancanza di spiegazioni reali. Spiegazioni più accurate da parte degli adulti circa il funzionamento effettivo degli oggetti li aiuta a costruire più accuratamente le loro categorie mentali.

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Bibliografia

Children’s reliance on creator’s intent in extending names for artifacts. Psychological Science, 2003, 164-168



Galileo Galilei, Isaac Newton, Albert Einstein, Stephen Hawking. Cosa hanno in comune questi individui? Sono tutti personaggi famosissimi che hanno rivoluzionato la storia e la scienza e soprattutto, sono tutti uomini!

bambini maschi femmine scienzaÈ molto diffusa l’idea che i maschi siano più predisposti per le materie scientifiche rispetto alle femmine, ma da cosa nasce questa opinione? E si tratta solo di un parere o di un dato di fatto? In realtà già negli anni ’90 un gruppo di psicologi aveva scoperto che le maestre si approcciano in modo diverso ai bambini e alle bambine riguardo le spiegazioni e domande scientifiche e che questa differenza nel trattamento era una delle cause del perché i maschi fossero più bravi delle loro compagne nei compiti di matematica e di scienze. (American Association of University Women, 1995; Jones & Wheatley, 1990; Kelly, 1988). Allora ci siamo chiesti: anche i genitori si comportano con i loro bambini come se i maschi fossero più bravi nelle materie scientifiche rispetto alle femmine?

In uno studio del 2001 e condotto da un team di psicologi provenienti dalle Università di Pittsburgh e della California è stato scoperto che i genitori (soprattutto i papà) sono molto più propensi a fornire spiegazioni a domande scientifiche ai figli maschi piuttosto che alle femmine. Gli sperimentatori hanno escogitato un ingegnoso stratagemma per studiare le interazioni fra genitori e figli senza che questi si accorgessero di essere osservati. L’esperimento si è svolto in un museo interattivo per bambini in California, con un gruppo di età compresa fra i 3 e gli 8 anni. I bambini potevano giocare e sperimentare direttamente con il materiale esposto nel museo, riguardante argomenti di fisica, biologia, ingegneria, geografia e psicologia.

L’analisi dei filmati ha dimostrato che in realtà non esistono differenze tra i bambini e le bambine circa l’uso e l’interesse per il materiale interattivo della mostra: il 99% dei bambini, sia maschi che femmine, ha partecipato volentieri alle attività proposte. Il tempo trascorso in ogni attività era pressoché identico nei maschi e nelle femmine. La differenza principale è stata invece riscontrata nel comportamento dei genitori: ogni tre interazioni che i genitori avevano con un figlio maschio era presente una spiegazione del fenomeno scientifico proposto nell’esposizione. Diversamente, quando interagivano con le femmine le spiegazioni venivano fornite solo una volta ogni dieci. Questa differenza non si è verificata quando le interazioni riguardavano altri argomenti come ad esempio su come utilizzare gli oggetti esposti. Questa sorta di pregiudizio si è verificato a prescindere dal fatto che nell’interazione fosse coinvolta la mamma, il papà o entrambi i genitori.

I ricercatori hanno ipotizzato che la forza dello stereotipo secondo cui i maschi sono più abili nell’ambito scientifico fosse talmente potente da indurre la maggior parte dei genitori a dedicare più tempo alle spiegazioni date ai maschi. Questo tipo di atteggiamento, con il passare degli anni, permette ai maschi di comprendere meglio i concetti scientifici, mentre le bambine, avendo avuto meno spiegazioni, riescono a comprendere meno questi concetti.

bambini maschi femmine scienzaMolto probabilmente queste spiegazioni non solo forniscono più conoscenze in ambito scientifico ma sono fondamentali per sviluppare, crescendo, un ragionamento di tipo scientifico. Forse Marie Curie e Margherita Hack, oltre ad un’ottima intelligenza, hanno avuto dei genitori che le hanno ritenute capaci di comprendere concetti scientifici… Ed avevano ragione!

 

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C’è chi dice che la nascita dei propri figli sia l’evento più bello nella propria vita, che i primi passi e le prime parole pronunciate dai nostri bimbi danno una gioia ineguagliabile. Che la vita è più bella da quando si è diventati genitori.

Anche se… le notti insonni, la costante paura che il bambino possa farsi male, decidere dove mandarlo a scuola, che sport fargli praticare, i primi litigi, i figli che crescono e cercano di guadagnarsi ostinatamente la loro indipendenza… non sembra essere poi così facile essere genitori. Qualcuno pensa che avere figli significhi più stress che felicità.

A chi dare ragione? Noi vogliamo parlarvi di tre studi che dimostrano che i genitori, ed in particolare i padri, sono più felici di coloro che non hanno figli!

Un team di psicologi provenienti dalle prestigiose University of California, University of British Columbia e Stanford University si sono riuniti nel 2013 per cercare di scardinare l’idea (diffusa tra genitori e non) che avere figli significhi avere più stress che gioie.

genitori feliciIl primo degli studi effettuati ha raccolto dati da un campione molto eterogeneo di cittadini statunitensi. La raccolta dei dati è stata effettuata più volte a distanza di anni, così da assicurarsi che lo stress/gioia di essere genitori non fosse influenzato da specifiche condizioni del momento (come un boom economico o una crisi). Ai partecipanti veniva chiesta l’età, lo stato coniugale e se e quanti figli avessero; infine a tutti i partecipanti veniva chiesto “tutto sommato quanto ti senti soddisfatto della tua vita? Considerando una visione d’insieme, diresti di essere una persona felice?”. I risultati del primo studio riportano che rispetto ai non-genitori, i genitori riportano punteggi più alti di soddisfazione, felicità e senso di essere importante al mondo; inoltre all’aumentare del numero di figli aumentava anche la soddisfazione dei genitori.




Il secondo studio è molto simile al primo ma ha prestato maggiore attenzione alla soddisfazione quotidiana e non a quella complessiva. I partecipanti a questo studio non hanno svolto un’intervista ma gli è stato chiesto di compilare individualmente un questionario online ogni giorno. Nel questionario venivano presentate domande circa il benessere al momento della compilazione e quello globale. I risultati di questo studio confermano quello precedente e dimostrano, inoltre, che il benessere riportato dai genitori rispetto agli adulti senza figli non riguarda solo una valutazione complessiva ma la soddisfazione e la felicità sono maggiori anche quando valutate giorno per giorno.

Il terzo ed ultimo studio è stato dedicato esclusivamente ai genitori per valutare se la soddisfazione che percepiscono quotidianamente sia legata esclusivamente ai momenti di interazione con i figli, ad attività fuori le mura domestiche oppure ad entrambe le attività. Con l’aiuto dei ricercatori, i genitori erano invitati a ricordare ed elencare minuziosamente ciò che avevano fatto nella giornata precedente; dopo aver passato in rassegna le azioni svolte nelle ventiquattro ore precedenti ogni mamma e papà doveva indicare quale emozione e reazione affettiva aveva provato in quel preciso momento. Confrontando le diverse situazioni è emerso che, durante la cura dei propri figli, i genitori provano emozioni più positive e sostengono di sentirsi molto più utili e influenti nella loro vita.

Insomma, essere genitori non sarà certo un’impresa facile ma rende la vita più felice e soddisfacente!

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Oggi è difficile, se non impossibile, definire con precisione come funziona una famiglia dal momento che esistono coppie separate, famiglie allargate, mamme in carriera e uomini che chiedono la paternità al posto delle compagne. Insomma, quella che era una distanza insormontabile tra i doveri di una madre e quelli di un padre si sta sempre più riducendo e forse in un futuro non molto lontano non ci saranno più differenze. Quali sono le conseguenze dei cambiamenti a cui stiamo assistendo all’interno della famiglia? Destabilizzano i bambini? O trasmettono loro un’idea più paritaria dei compiti che devono rivestire i due genitori? In uno studio del 2012 la Dottoressa Alyssa Croft , della British Columbia University, è arrivata alla conclusione che i ruoli rivestiti dai genitori in casa abbiano un fortissimo impatto sulle aspirazioni dei bambini e delle bambine rispetto ciò che vogliono fare da grandi. In particolar modo la disuguaglianza fra i due generi sarebbe alla base di un sistema futuro in cui le donne continueranno ad essere penalizzate anche al lavoro.

È stato chiesto a 326 bambini tra i 7 e i 13 anni e ai loro genitori di rispondere a domande rispetto alle loro credenze circa i ruoli di genere ovvero ciò che secondo loro spetta a una mamma/moglie e cosa al papà/marito. In un secondo momento, è stato chiesto ai genitori quanto si considerassero partecipi nelle faccende di casa, quante ore lavorassero ogni giorno e quanti soldi percepissero di stipendio. I risultati mostrano come, rispetto agli uomini, le donne dichiaravano di occuparsi della maggior parte dei lavori domestici, lavoravano per un numero di ore simile ma con un salario significativamente inferiore. Nell’ultima fase dello studio i ricercatori hanno chiesto ai bambini di parlargli delle loro aspirazioni per il futuro, cioè di cosa vorrebbero fare da grandi e infine sono state confrontate le risposte dei bambini con quelle dei loro genitori.

Qual è l’effetto di questa disuguaglianza sui nostri figli?

Le madri che avevano manifestato espressamente un’idea molto stereotipata delle differenze di genere (ovvero l’uomo più forte, che si deve occupare del lavoro e la donna che invece ha come compiti la cura della casa e della famiglia) erano quelle i cui figli avevano idee più stereotipate rispetto agli altri bambini; come ad indicare che le nostre convinzioni, soprattutto se espresse esplicitamente, hanno un fortissimo impatto sulle convinzioni e aspettative dei nostri bambini. Quando i padri4269258845_614e20f861_z riportavano una suddivisione dei lavori domestici più equa con la propria compagna le loro figlie femmine dimostravano di essere più propense a lavorare fuori di casa e ambivano a ruoli “meno tipicamente femminili”. In accordo con quanto sostenuto dalla dottoressa Croft, concludiamo dicendo che una distribuzione più equilibrata dei doveri e dei ruoli all’interno della famiglia rappresenta una condizione auspicabile non solo per noi genitori ma anche per i nostri bambini, perché un giorno possano sentirsi liberi di poter scegliere il ruolo che ritengono più adatto per loro, indipendentemente dagli stereotipi.

 

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L’obesità infantile è un problema sempre più comune nella nostra società. L’obesità è chiaramente il risultato di un alimentazione eccessiva o non equilibrata. La soluzione più ovvia sembrerebbe quella di far seguire al bambino una dieta equilibrata, magari accompagnata da un’attività fisica. In realtà, l’obesità non è un problema prettamente alimentare, ma sottende importanti difficoltà dal punto di vista psicologico.

Rimke C. Vos, una giovane psicologa olandese, in uno studio del 2011 ha dimostrato come la semplice dieta sia poco o per nulla efficace nell’obesità infantile, mentre la psicoterapia cognitivo comportamentale), andando ad intervenire sugli aspetti psicologici, si sia rivelata di gran lunga più efficace.

obesità infantile Lo studio ha coinvolto un gruppo di bambini con problemi di obesità, tutti con un livello di obesità simile, calcolato tramite l’indice di massa corporea (BMI). Successivamente i bambini sono stati divisi in due gruppi: il primo gruppo è stato sottoposto ad una psicoterapia cognitivo comportamentale; mentre al secondo gruppo sono state fornite delle indicazioni circa l’alimentazione equilibrata e l’attività sportiva consigliata da svolgere. Anche i genitori dei bambini sono stati coinvolti nell’esperimento ed è stato chiesto a loro e ai loro figli di compilare un questionario per valutare il livello di qualità della vita (Health Related Quality of Life, HRQOL). Il trattamento è durato tre mesi e dopo un anno dall’esperimento entrambi i gruppi di bambini sono stati ricontattati per compilare nuovamente il questionario e verificare i risultati dei due tipi di interventi.

Quali conclusioni ha riportato lo studio?

Innanzitutto non solo i bambini ma anche i loro genitori avevano una qualità della vita molto più bassa rispetto a quelli dei bambini e dei genitori di figli normopeso. I due gruppi di bambini non mostravano grandi differenze immediatamente dopo aver partecipato ai due diversi interventi ma le differenze sono emerse un anno dopo. I bambini che avevano partecipato alla psicoterapia avevano una qualità di vita più elevata, una maggiore autostima ed una migliore percezione delle proprie abilità fisiche, ma soprattutto erano riusciti a perdere molto peso, abbassando notevolmente l’indice di massa corporea. Il secondo gruppo, che aveva ricevuto solo indicazioni su una dieta equilibrata ed una corretta attività fisica, non aveva ottenuto simili progressi, rimanendo sostanzialmente nella condizione in cui era più di un anno prima. Dopo 12 mesi anche i genitori dei bambini che avevano partecipato alla psicoterapia riportavano un grande miglioramento nel livello di qualità della vita, indicando come l’obesità sia un problema che non riguarda un solo il singolo bambino ma ricade anche sulla famiglia. Ovviamente, quando i figli stanno meglio migliorano anche i genitori.

Questo studio è solo uno dei tanti che vengono realizzati per cercare di capire come affrontare e superare il problema dell’obesità infantile ma ci è utile per capire che l’obesità può rappresentare un vero fardello per il bambino e per la sua famiglia perché intacca la percezione del proprio corpo, l’autostima e le relazioni con gli altri tanto da rendere la vita più difficile e meno piacevole. In ultimo, l’obesità non è un problema che si risolve spontaneamente e che non voler affrontare la situazione o rimandare ogni intervento porterà difficilmente a qualche tipo di risultato.

 

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